ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA - III

395

Ottone Rosai ©  
(Firenze, 1895 - Ivrea, 1957)

Due sulla spalletta, 1938

Matita e carboncino su carta
cm. 180x130

Provenienza: F. Fei Rosai, Firenze; C. Del Conte, Firenze; raccolta privata, Firenze. Esposizioni: 1977, A vent'anni dalla morte di Ottone Rosai. 5 dipinti e 114 disegni, 18 dicembre  - 14 gennaio, testo di A. Parronchi, Galleria Pananti, Firenze, (ripr. in cat, p. 111); 1983, Ottone Rosai, Opere dal 1911 al 1957, 13 novembre - 18 dicembre, a cura di P. C. Santini, Palazzo Strozzi, Firenze, ( ripr. in cat. p. 261, n. 10a); 1990, Ottone Rosai. Dipinti, disegni, scritti di G. Nicoletti, 21 luglio - 28 agosto, Scuola G. Pascoli, Vittoria Apuana, (ripr. in cat. 172, n. 18); 1996, Ottone Rosai nel Centenario della nascita. Disegni dal 1906 al 1956, presentazione di A. Parronchi, 7 dicembre - 21 gennaio, Accademia delle Arti del Disegno, Firenze, (ripr. in cat. n. 56); 2006, Rosai. Alla deriva delle illusioni. Disegni e acquerelli (1933-1956), a cura di G. Faccenda, 3 - 18 giugno, Ostuni, 9 - 24 settembre, Simeri, (ripr. in cat. p. 23, n. 7). Bibliografia: 2018, Catalogo Generale Ragionato delle Opere di Ottone Rosai, G. Faccenda, vol. 1, Editoriale Giorgio Mondadori, Milano, p. 186, n. 343.

Expertise del Prof. Giovanni Faccenda.

"Rosai è un segno. Unico, indelebile, profondamente incisivo. Sul bianco della carta diventa sigla inconfondibile di un uomo che non fa sconti ad alcuno e, in particolare, a se stesso. Al solito, il nero della matita riesce ad addentrarsi fra le ombre dell’anima con sconcertante disinvoltura, fino a raggiungere angoli remoti ove torride inquietudini insistono arcane e immutabili. Riemerge, a un tratto, febbrile, per perpetuare su fogli spesso consunti sentimenti che appartengono alla realtà degli uomini, con esiti toccanti, che fanno addirittura pensare ai responsi di un illuminato veggente. Rosai è il segno. Di un’umanità che esiste o, per meglio dire, resiste, in un’attesa analoga a quella che è dato di percepire al cospetto di certi suoi interni ebbri di tabacco e solitudine, lì dove egli ebbe a trovare fecondi pretesti espressivi, irrinunciabili motivi di scavo sepolti oltre l’anonima apparenza di una suggestiva varietà di individui. Sebbene all’approccio ci sferzino come un vento di libeccio improvviso, questi disegni così intensi e palpitanti, sovente persino drammatici, a poco a poco entrano in noi finendo per rappresentare una sorta di conforto insperato dinanzi ai molteplici tarli dell’esistenza: sapere che qualcuno abbia già provato le nostre stesse angosce, identiche trepidazioni, aiuta certo a raggiungere la consapevolezza di una sorte comune a molti e, dunque, a non desistere in quella gara di sopravvivenza che è la vita. Rosai dispensa esempi che ci sollevano, tipi nei quali istantaneamente ci riconosciamo, segnati dal peso di un quotidiano tanto simile al nostro. È un’urgenza, la sua, di cui dà conto anche in un celebre scritto (Sulla soglia dell’irraggiungibile, in «Via Toscanella», Vallecchi, Firenze, 1930): «Gli uomini, specie i ben portanti, gli impettiti, coloro che vorrebbero dare a bere di chissà quale missione da svolgere nella vita, furono sempre i miei bersagli preferiti e fino a quando non ho potuto dimostrare la tragedia della loro presenza sulla terra per mezzo di un pezzo di matita, mi son divertito a pigliarli a sassate.» Nella straordinaria fisiognomica dei personaggi rosaiani – emblematici, in tal senso, i protagonisti del disegno e del successivo, omonimo dipinto Due uomini sulla spalletta, ispirati dal soggiorno estivo del 1938 a Greve in Chianti ospite della famiglia Tirinnanzi –, il disincanto è la smorfia che compare più frequentemente sui loro volti. Si tratti di amici poeti o semplici avventori, facoltosi borghesi o poveri contadini, l’assillo di Rosai è sempre il medesimo: rivelare quanto di nascosto essi tengano taciuto nel loro animo. Così, ne indovina a una a una le ansie, le presunzioni come le fragilità, i bui anfratti dove allignano piccole e grandi contraddizioni e, finanche, l’intero repertorio di falsità. In quella che egli ravvisa non come miseria ma come verità, una verità che avverte peraltro intimamente propria, il segno affonda come il bisturi di un chirurgo: puntuale e preciso ove serva esserlo, interviene sulle carni e l’inconscio dei soggetti ritratti con il rispetto che questi meritano. L’esercizio è catartico, al punto da risvegliare una dignità violentata dalla sopraffazione e annegata nel silenzio, smarrita e confusa in quei territori dello spirito ormai inariditi. Chi e cosa si celi oltre facce intristite e dolenti posture è storia che germina dal nero della matita. Immediate, nel tratto ansioso di un autore acceso d’interesse per i più reconditi rovelli degli uomini, collimano sonorità gravi come echi di caverna: lugubri lamenti taciuti nella fissità di pose caratterizzanti una moltitudine attonita di fronte all’avversarsi del proprio destino.

Giovanni Faccenda"



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